L’ex revisore generale dei conti chiama i giornalisti: Becciu mi disse di lasciare e la Gendarmeria mi minacciò
«Parlo solo ora perché volevo vedere cosa sarebbe successo dopo le mie dimissioni del 19 giugno. In questi tre mesi dal Vaticano sono filtrate notizie offensive per la mia reputazione e la mia professionalità. Non potevo più permettere che un piccolo gruppo di potere esponesse la mia persona per i suoi loschi giochi. Mi spiace molto per il Papa. Con lui ho avuto un rapporto splendido, indescrivibile, ma nell’ultimo anno e mezzo mi hanno impedito di vederlo. Evidentemente non volevano che gli riferissi alcune cose che avevo visto. Volevo fare del bene alla Chiesa, riformarla come mi era stato chiesto. Non me l’hanno consentito…». Libero Milone, 69 anni, per due primo Revisore generale dei conti vaticani, ex presidente di Deloitte Italia, ha la voce che ogni tanto si incrina per l’emozione. Da quando ha ricevuto un benservito traumatico e, a suo avviso, basato su accuse prefabbricate, è un uomo provato. «Per oltre un mese non ho dormito», racconta. «Continuerò a rispettare l’impegno di riservatezza sul lavoro istituzionale svolto per la Santa Sede, secondo gli accordi sottoscritti. Ma non posso far passare sotto silenzio il modo in cui sono stato trattato. Voglio essere chiaro: non mi sono dimesso volontariamente. Sono stato minacciato di arresto. Il capo della Gendarmeria mi ha intimidito per costringermi a firmare una lettera che avevano già pronta…». Milone parla per tre ore nello studio dei suoi avvocati. Oltre al Corriere, ha chiamato il Wall Street Journal, l’agenzia Reuters e Sky Tg24. Legge una lunga memoria, poi risponde alle domande. Sa che c’è solo la sua parola, contro accuse di peculato e di sconfinamento dei suoi compiti, ipotizzate dal tribunale vaticano.
Lei rivolge accuse molto gravi, dottor Milone. Si deve aspettare una reazione, con le carte che la riguardano.
«Lo spero, che escano. Ma che escano tutte. Quando e se si saprà la verità, sarà chiaro che sono innocente al mille per cento. Anzi, non voglio neanche dire innocente, perché non mi devo discolpare. Si vedrà che ho fatto solo il mio lavoro».
Paga il fatto di essere stato scelto dal cardinale Pell?
«Non sono stato scelto da Pell. Mi scelsero il segretario di Stato, Piero Parolin, il cardinale Reinhard Marx e Pell. E la decisione finale fu del Papa. Non ho cercato quel posto. Mi contattò da Miami lo studio Egon Zehnder. E accettai perché credevo nelle riforme di papa Francesco».
Con Pell aveva buoni rapporti.
«Certo. Lo sono andato a salutare e l’ho abbracciato anche prima che partisse per l’Australia, per difendersi nel processo in cui è accusato per abusi sessuali, rinunciando all’immunità. Mi disse che voleva salvare la sua onorabilità».
Che idea s’è fatto di quel caso?
«Non saprei. Noto solo che le indagini su di lui per un caso di quarant’anni fa sono affiorate circa un anno fa. E, si legge nel decreto consegnatomi, nello stesso periodo la Gendarmeria ha cominciato a indagare su di me. Voglio credere che sia una coincidenza. Ultimamente lavoravamo a un nuovo codice sugli appalti».
Lei ha cercato i giornalisti per raccontare la sua versione. Da dove vuole cominciare?
«Dal 19 giugno, quando fui ricevuto dal sostituto alla segreteria di Stato, monsignor Becciu, per parlargli del contratto dei miei dipendenti. E invece mi sentii dire che il rapporto di fiducia col Papa si era incrinato: il Santo Padre chiedeva le mie dimissioni. Ne domandai i motivi, e me ne fornì alcuni che mi parvero incredibili. Risposi che le accuse erano false e costruite per ingannare sia lui che Francesco; e che comunque ne avrei parlato col Papa. Ma la risposta fu che non era possibile. Becciu mi disse invece di andare alla Gendarmeria».
E lei ci è andato?
«Certo. E notai subito un comportamento aggressivo. Ricordo che a un certo punto il comandante Giandomenico Giani mi urlò in faccia che dovevo ammettere tutto, confessare. Ma confessare che cosa? Non avevo fatto nulla».
Eravate soli?
«Alla Gendarmeria ero solo; Giani con altri due ufficiali. Quando poi siamo andati nel mio ufficio c’erano anche i miei collaboratori, che si preoccuparono sentendo le grida. Bloccarono tutti dentro gli uffici, comprese le segretarie, fino alle 8.30 di sera. E ci intimarono di consegnare tutti i documenti. Uno dei vice-revisori era assente. E furono chiamati i pompieri del Vaticano per forzare armadio e scrivania».
Evidentemente c’era un’accusa che motivava quel comportamento.
«Mi hanno mostrato due fatture intestate a un unico fornitore, e accusato di avere compiuto una distrazione di fondi: dunque un peculato, come pubblico ufficiale. Vidi che su entrambe le fatture c’era il timbro del mio ufficio, ma solo una era firmata da me. L’altro aveva come firma uno scarabocchio. Mi chiesi chi l’avesse timbrata e pagata, e a chi».
E come si è risposto?
«Che una delle due era falsa. Erano conti per indagini ambientali, per 28 mila euro, per ripulire gli uffici da eventuali microspie. In più, il decreto del tribunale parlava solo delle mie competenze contabili, senza citare i controlli sull’antiriciclaggio e la lotta alla corruzione, contenute nello statuto. E con questo mi hanno accusato anche di avere cercato informazioni impropriamente su esponenti vaticani. Scoprii che indagavano da oltre 7 mesi su di me. Hanno sequestrato documenti ufficiali protocollati e coperti dal segreto di Stato».
Non poteva impedirlo?
«E come? Non potevo fare niente. Ero intimidito. Mi fecero sentire un’intercettazione con la mia voce per spaventarmi ulteriormente. E siccome rivendicavo la mia innocenza, Giani mi disse che, o confessavo, o rischiavo di passare la notte in Gendarmeria. Se il vostro obiettivo è farmi dimettere, mi dimetto. Vado a preparare la lettera, dissi».
E loro?
«Risposero che era già pronta. L’andarono a prendere. La lessi e dissi: questa non la firmo. Perché era il 19 giugno ma la lettera era datata 12 maggio».
Un errore?
«Ci siamo sbagliati: dissero così. Ma come, se la siete andata a prendere, obiettai. Comunque, portarono via tutto, anche il mio telefonino e l’iPad: c’erano dentro notizie su società quotate in Borsa e anche il mio abbonamento al Corriere. Il giorno dopo interrogarono per cinque ore uno dei miei vice, Ferruccio Panicco, e gli chiesero le dimissioni».
Gli oggetti personali che fine hanno fatto?
«Me li restituirono una settimana dopo, con lettera sigillata, firmata non dal tribunale ma da monsignor Becciu. Strano anche questo, no?».
Tutto molto strano. Anche il fatto che nessuno l’abbia difesa: un avallo implicito delle accuse…
«A metà luglio ho scritto al Papa attraverso un canale sicuro e credo abbia avuto la lettera. Spiegavo che ero vittima di una montatura, e meravigliato dell’uscita contemporanea di Pell. Nessuna replica».
Sorpreso dal silenzio del Papa?
«Dispiaciuto, e molto. Conoscendolo di persona, e stimandolo moltissimo, il suo silenzio totale me lo spiego o col fatto che non gli hanno consentito di parlare con me, o con altre ragioni che non conosco».
Forse effettivamente si era incrinato il rapporto di fiducia.
«Ma allora il Papa poteva telefonarmi e dirmelo. Invece, c’è stata questa messinscena che sa tanto di character assassination. Mi dicono che il Papa sia stato messo al corrente solo dopo. Non lo so. Noto che dopo le mie dimissioni non è successo niente: come se il vero e unico obiettivo fosse quello».
Quando ha incontrato per l’ultima volta il Papa?
«Dal 1° aprile del 2016 non l’ho più visto. A settembre chiesi di vederlo ma mi dissero di fare la richiesta tramite la segreteria di Stato. Ne ho fatto due, scritte. Mai una risposta. Prima lo incontravo ogni 4-5 settimane. Parolin una volta al mese. E Becciu ogni 5-6 settimane».
Non le è venuto qualche sospetto?
«Più d’uno, ma mi dicevano che era impegnato. Ho capito che mi stavano frenando e lo stavano isolando. Non so come abbiano fatto ma ci sono riusciti».
Chi ci è riuscito e ha fatto scattare le dimissioni?
«Ho qualche idea. Credo che il Papa sia una grande persona, e era partito con le migliori intenzioni. Ma temo sia stato bloccato dal vecchio potere che è ancora tutto lì, e si è sentito minacciato quando ha capito che potevo riferire al Papa e a Parolin quanto avevo visto nei conti. Questo dice la logica».
Scusi ma qui c’è solo la sua parola e la sua memoria contro la parola del Vaticano. Niente documenti né altro.
«Ma ho una memoria molto buona. E spero che i documenti sequestrati il 19 giugno escano fuori dal Vaticano».
È stato fatto filtrare che Lei se n’è andato per non abbassarsi lo stipendio.
«Falso anche questo. Me l’ero ridotto da solo al momento dell’assunzione: 250 mila euro l’anno netti, invece dei 300 offertimi nel contratto. In seguito non mi è arrivata mai questa richiesta, né direttamente né indirettamente».
L’accusa di avere ancora consulenze private?
«Le ho eliminate quasi tutte, tranne un paio per tenermi aggiornato».
Il Papa non potrebbe essersi convinto che il vostro approccio non andava bene?
«Il suo segretario mi disse che Francesco voleva andare avanti; che il treno era partito e il binario era quello giusto. Magari poteva non esserci sempre la stessa velocità».
Possibile che Francesco sia stato informato male?
«Può darsi: l’ha detto lui stesso più volte. Non so se sia avvenuto anche in questo caso».
Il suo lungo silenzio non ha legittimato la decisione vaticana?
«Io conto sempre fino a quindici prima di reagire. Esisteva un patto di reciproca riservatezza che qualcuno in Vaticano ha violato. Non parlerò mai del mio lavoro come revisore dei conti. Il Papa mi aveva chiesto di promuovere la trasparenza, e ho cercato di farlo per rispettare la volontà dei fedeli e dei donatori. Ma ho deciso di rimediare almeno a tutte le cose a vanvera fatte uscire sul mio conto».
Perché non ha sporto denuncia?
«Non è escluso che ci si arrivi».
Non ha l’impressione di un rigetto della riforma delle finanze vaticane?
«Vedo la difficoltà di conciliare i principi teorici con la pratica. Ma riscrivere le norme sarebbe un enorme passo indietro rispetto all’adeguamento agli standard internazionali. Le autorità di controllo avrebbero molto da ridire».