Il re é nudo

re-nudoLa gran parte dei cattolici laici (in questo momento mi sto riferendo solo a loro), che assiste con sconcerto – per usare un eufemismo – ai correnti accadimenti ecclesiali, si domanda pressantemente: “che fare?”.

È un interrogativo tanto diffuso quanto, direi, inevaso; ed io non ho certo la pretesa di dargli una risposta esauriente, men che meno definitiva. In tanti lanciano appelli ai buoni pastori: “siate le nostre guide!”, ma è evidente che anch’essi sono

legittimamente in difficoltà di fronte agli sconquassi sempre più choccanti nei quali ci imbattiamo. È anche evidente che alcuni non rimangono inerti né silenziosi: cercano di fare del loro meglio, e molti stanno dando il meglio soprattutto sul piano spirituale e del sacrificio personale, talora al limite del martirio bianco.

Ma torniamo all’interrogativo, e proviamo a rifletterci su.

In primo luogo, possiamo tentare di mettere a fuoco che cosa non fare. Secondo me, è imperativo non abbandonarsi allo zelo amaro, alla convinzione che tutto sia umanamente e storicamente perduto e che solo un miracolo ci salverà.

Non per escludere il miracolo, ovviamente, né per negare che senza un aiuto soprannaturale non potremo uscirne; ma per non tentare la Provvidenza. Quale che sia lo scopo provvidenziale di questa prova, è certo che di una prova si tratti: e ogni prova ci chiama alla (re)azione, sia sul piano spirituale, sia sul piano delle opere.
Poi, possiamo e dobbiamo fare ciò che ci è stato indicato espressamente: siamo nel 2017, no? Nel centenario di Fatima: dunque “penitenza, penitenza, penitenza”! Confessione, comunione, rosario. Dovremmo saperlo bene…. E poi?
Potrebbe esserci dell’altro?
È proprio qui che entra in gioco Prezzolini. Nel 1922/1923, egli ideò una cosa chiamata la Congregazione degli Apoti: «oggi», scriveva, «tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati.
Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di “coloro che non le bevono” tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle, è evidente e manifesta ovunque…. ».
Si trattava, dunque, di coloro che non si lasciavano sedurre dal pensiero dominante, dai luoghi comuni subiti passivamente, da ciò che oggi chiameremmo lavaggio del cervello mediatico, dalla falsificazione della realtà e dall’adesione alla falsità. Insomma, tutti coloro che non si lasciavano prendere in giro dai “potenti” o dai “furbi”, e che si ostinavano a voler considerare le cose come stanno, e non come pure ci farebbe piacere – o comodo – che stessero.
Gli apoti ci sono anche nella Chiesa. Si trovano tra i fedeli semplici, tra i battezzati privi di appeal pastorale, ma non di dignità spirituale e di intelligenza dottrinale.
Ne citiamo un esempio non preso a caso: gli sposi che hanno subito un divorzio, ma che, ciononostante, si sono mantenuti fedeli al sacramento, al coniuge che li ha abbandonati. Questi apoti non contestano la Gerarchia e non ne negano l’autorità, ma ne respingono l’incultura e il modernismo ormai sempre più palese: quello per cui la realtà è normativa e prevale su ogni ragionamento teologico o dottrinale, e il buon cattolico è colui che aderisce acriticamente ai fatti così come brutalmente accadono (oggi si dice “alla vita reale delle persone”), e che si beve tutto ciò che è necessario bersi per essere in sintonia con la contemporaneità, per non sentirsi “fuori dai giochi”.
Quel modernismo per cui il tanto invocato discernimento non vale a discriminare le azioni o le intenzioni in base alla regola del comportamento, ma a rinvenire tale regola “a valle”, non “a monte”, dei comportamenti reali, di cui si “discerne” la normatività: così da assecondare l’onda, e sentirsi coerenti con i segni dei tempi… Senza rendersi conto – si spera – che ciò equivale a dire che il peccato, che è un fatto brutalmente reale, un comportamento intrinseco, ahimè, “alla vita reale delle persone”, è normativo, a iniziare dal peccato primo, il peccato originale.
Ebbene: come è già accaduto in altre analoghe contingenze storiche, qualcuno fra questi apoti ha iniziato a comprendere che esiste anche il “potere dei senza potere”, di quanti avvertono il bisogno di “vivere nella verità” (Vaclav Havel). Come potrebbe spiegarsi, infatti, l’inusitato proliferare di manifestazioni di disagio – anzi, di dissenso – espresso in forme ironiche, sarcastiche, satiriche, indirizzate da cattolici ad altri cattolici, che ha già toccato picchi in passato inimmaginabili (il riferimento alle famose affiches capitoline o alla falsa prima pagina dell’Osservatore Romano è voluto), se non come l’unica possibilità di farsi sentire concessa al vero emarginato, al vero abitante delle vere periferie ecclesiali?
Egli è ridotto alla condizione di Pasquino: giustamente evocato proprio con riguardo agli episodi che ho appena ricordato. Questo diffuso e finora silente dissenso, che, come è stato ampiamente notato, è della stessa natura del dissenso popolare ai tempi della crisi ariana – cioè un santo dissenso, perché il bisogno di “vivere nella verità” è un bisogno benedetto –, può forse fare un qualche salto di qualità? Riusciranno questi fedeli, cui ben pochi pastori sono realmente capaci di prestare attenzione, a dare alle loro ragioni un’espressione più esplicita e più organica di uno sfottò?
Sapranno rompere la coltre del conformismo di regime che li costringe a muoversi solo sul piano delle pasquinate clandestine? È pensabile una sorta di ideale “marcia dei quarantamila” dei cattolici che desiderano mantenersi tali? In altri termini: è forse giunto il momento di lanciare il manifesto degli apoti – anzi dei catto-apoti?
  • Il manifesto di coloro che non si bevono: la riduzione della misericordia a figura od espediente retorici;
  • l’attribuzione di valore teologico all’ecologismo alla Al Gore; la collegialità di cartapesta attorno al più roccioso autoritarismo;
  • il sociologismo esasperato, in ritardo più o meno di quarant’anni;
  • l’aritmetica teologica del due più due uguale cinque;
  • la spocchia di chi diffida delle parole del Verbo, perché non ci sono pervenute su supporto magnetico;
  • Napolitano e la Bonino tra i grandi dell’Italia di oggi, o Enzo Bianchi tra i grandi dell’odierna Chiesa;
  • la sussiegosa condanna della rigidità, che cela tutta l’insofferenza per chi si sforza di vivere come pensa e crede, anziché abbandonarsi a pensare e credere come vive;
  • il disprezzo del diritto mascherato da irresistibile volontà di risanamento; l’incoerenza e la contraddizione spacciate per libertà evangelica;
  • il culto della personalità travestito da amore per la semplicità e la modestia; e tutto il resto che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
Il manifesto di coloro che non si bevono il mantra del “finalmente”: di una chiesa “finalmente” accogliente, inclusiva, comprensiva, misericordiosa, povera per i poveri, pacifica, evangelica, ecumenica… che, insomma, in questi ultimi duemila anni testé trascorsi avrebbe capito poco del Vangelo, ancor meno del mondo, flirtato col potere, corrotto gli animi, ecceduto in pizzi e merletti, relegato il popolo nell’ignoranza, parlato una lingua morta, oppresso i fedeli con dogmi e divieti, diviso la cristianità respingendo orientali e luterani, fatto criminale proselitismo e, soprattutto, ingiustamente negato la comunione ai plurigami!
Che non si bevono, in altri termini, la nuova Chiesa grande, strana, e stravagante, in cui tutti – evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione; forse anche i mussulmani – possano riunirsi e avere uguali diritti (ma differenti dottrine: la dottrina è un puro gioco intellettuale, con “la vita reale delle persone” non c’entra), e pensano che, invece, Dio abbia altri progetti, e magari sia pure cattolico…
NB: il riferimento alla beata Caterina Emmerich è anch’esso voluto.
Questi apoti, in tutto quanto non si bevono vedono una sola cosa: l’estremo tentativo di un gruppo di vegliardi e dei loro pochi e sterili vassalli, incapaci di riconoscere il proprio fallimento, di trovare una rivincita, di affermare violentemente – cioè usando il potere senza carità e senza curarsi del diritto – i loro pregiudizi ideologici, maturati negli anni della loro giovinezza (formidabili quegli anni!), e di dimostrare che tra l’ideologia ed i fatti sono quest’ultimi a dover avere la peggio. Una specie di conventicola alla quale importa solo di vincere, senza necessità di convincere. Anche perché a convincere ci hanno provato senza successo per quasi cinquant’anni, ormai – per quanto la vita media si sia allungata – è rimasto loro poco tempo, i giovani, specie le nuove generazioni sacerdotali, non se li filano proprio, e sono costretti ad agire spregiudicatamente, fulmineamente e senza fare prigionieri.
Concludendo: un manifesto nel quale si dica, senza troppi giri di parole, senza ricorrere alla dissimulazione della presa in giro, con l’innocenza di chi non ha paura dell’evidenza, che il re è nudo.
E che quello che dovrebbe essere magistero si è ridotto a pura affabulazione, talora bonaria o addirittura divertente, talaltra fatta di vuoti slogan o addirittura di meri sofismi proposti come illuminanti verità, dalla quale sono completamente assenti proprio le parole che i fedeli aspettano come le sentinelle l’aurora: le parole di vita eterna.
Enrico Roccagiachini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *