Il cristianesimo non è una religione. La rivelazione della verità è fatta per dividere

luglio 27, 2018

Mi ha commosso e interrogato l’intervento di Peppino Zola dal titolo “Una Chiesa insicura non genera speranza” apparso su La Nuova Bussola Quotidiana. A muovere il commento dell’ex pro sindaco di Milano è lo stridente contrasto fra la sua personale esperienza di incontro con la fede cristiana e la riflessione chestertoniana sulla Chiesa cattolica che sa evitare la schiavitù allo spirito del tempo da una parte, e la cedevolezza di una quota non irrilevante della gerarchia e del clero che tende ad annacquare il messaggio cristiano e a moltiplicare i mea culpa nell’apparente intento di risultare così più attraente all’uomo contemporaneo dall’altra parte. Spiega Zola che non sarà abbassando l’asticella sulle questioni matrimoniali e sessuali che la Chiesa riconquisterà i cuori, ma quando tornerà «ad avere il coraggio di testimoniare e affermare con carità il giusto, anche quando l’uomo ateo di oggi approfondisce il proprio errore», che è la cosa che convinse lui, giovanissimo non più praticante, a riavvicinarsi alla Chiesa attraverso il movimento di Comunione e Liberazione. Agli elementi della gerarchia e del clero che stanno un po’ disorientando i fedeli indirizza un famoso aforisma di Chesterton: «Non abbiamo bisogno di una religione che sia nel giusto quando nel giusto siamo anche noi. Ciò che ci occorre è una religione che sia nel giusto anche quando noi siamo nell’errore».

L’intervento mi ha commosso per il senso di certezza della fede e di implacabile passione missionaria che trasmette. E perché la sua ingenua baldanza contrasta col disincanto che io personalmente provo nei riguardi della religione oggi. Della religione, non della fede. Non della verità. Eccepisco che noi si abbia bisogno di una religione che sia nel giusto anche quando noi siamo nell’errore, perché non ho troppa simpatia per la religione. Lamento il fatto che il cristianesimo si sia involuto da rivelazione della Verità divina attraverso un avvenimento in religione che, come tutte le religioni, è più attenta alla coesione sociale e alle ragioni del “vivere insieme” che alla Verità. È così che si spiegano, per esempio, le uscite di vescovi e cardinali tedeschi, belgi e austriaci sull’opportunità di benedire in chiesa coppie omosessuali. Benedizioni che occasionalmente parroci un po’ in tutta Europa impartiscono, abbastanza spesso da non far più tanto notizia come qualche tempo fa. È così che si spiega l’eccessiva mansuetudine che trabocca in colpevole indulgenza di quel vescovo italiano che non ha avuto nemmeno una parola di biasimo per quel suo sacerdote che ha tradito i voti per accasarsi con un altro uomo. Mentre la rivelazione della verità è fatta per dividere («Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione», Lc 12,50), la religione è fatta per unire, dunque deve accettare tutto, ingoiare tutto. Il cristianesimo non è una religione (Giacomo Biffi), e questo spiega il disagio di tanti battezzati laici, sacerdoti e vescovi che vedono una quota non irrilevante di gerarchia e di clero impegnata nel ridurre il cristianesimo a religione.

L’etimologia più convincente della parola religione è quella di Lattanzio: religio viene da re-ligare, cioè legare fortemente. Per l’apologeta cristiano del III-IV secolo si tratta del legame fra il credente e Dio: «Hoc vinculo pietatis obstricti Deo et religati sumus; unde ipsa religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est, a relegendo», cioè «per questo vincolo di pietà siamo stretti e legati a Dio: onde prese il nome la stessa religione, e non come Cicerone ha interpretato, da relegere» (Divinarum Institutionum libro IV 28,2). Ma nella parola religio Dio non c’è, c’è il verbo ligare, e c’è quel re- che viene sempre interpretato come un rafforzativo, ma che potrebbe anche essere inteso come “res”, cosa. E qual è la cosa che la religione lega insieme? È la “res publica”, cioè lo Stato. La religione è al servizio dello Stato, unisce i cittadini con una profondità senza paragoni, ha una funzione civile ineguagliabile: chiedete conferma ai governanti dei paesi islamici se avete dubbi in proposito.

Joseph Ratzinger viene incontro alla mia interpretazione. In un suo articolo del 1971 sulla teologia politica di Agostino ripubblicato in italiano nel 2009 e poi di nuovo quest’anno all’interno del volume Liberare la libertà – Fede e politica nel terzo millennio spiega la natura della religione dei romani come instrumentum regni ben distinto dalla ricerca e dall’affermazione della Verità:

«La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore delle consuetudini, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana: Scevola, Varrone, Seneca. (…) Il riguardo alla polis e al suo bene giustifica l’attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere nelle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità. (…) secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata ad esso. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato ma ha istituito per se stessa una nuova comunità». (pp. 40-42)

Parte dell’episcopato tedesco sembra aver scelto la regressione dalla concezione cristiana a quella romana, con due non secondarie differenze: la prima è che non canonizzano le consuetudini, le antiche forme, ma le novità di una società in trasformazione; la seconda è che non si considerano una funzione dello Stato (anzi il card. Marx ha condannato il provvedimento del governatore bavarese Soder che ordina di esporre il crocifisso in tutti gli edifici pubblici affermando che si tratta di una strumentalizzazione della religione), ma del Potere. Prima che lo Stato attraverso il governo e il parlamento, è il potere economico, finanziario, culturale, tecno-scientifico, burocratico globalizzato a determinare i cambiamenti del costume. La reversibilità del vincolo matrimoniale, il riconoscimento sociale e istituzionale di tutti gli orientamenti sessuali, l’omogeneizzazione di tutte le religioni sulla base di pochi precetti di morale condivisa sono funzionali agli imperativi della crescita economica attraverso la crescita dei consumi, dell’espansione finanziaria attraverso l’indebitamento, dell’egemonia del paradigma tecnologico che si impadronisce anche della procreazione umana, ecc. È la funzionalità a questo potere che spiega l’elasticità dell’alta gerarchia ecclesiastica tedesca. Insieme a ragioni più bottegaie (ma non dimentichiamo che la Germania è il paese di Angela Merkel, architetto dell’egemonia bottegaia della Germania in Europa): la Chiesa cattolica tedesca, come pure quella evangelica, si avvantaggia della tassa sul culto che ogni battezzato paga con la dichiarazione dei redditi. La prima incassa annualmente 6,1 miliardi di euro, la seconda 5,5. Insieme, la Chiesa cattolica e quella evangelica rappresentano il secondo datore di lavoro dopo lo Stato in Germania: un milione di impiegati lavora nelle loro strutture. Ricchissime, entrambe le Chiese però hanno un problema: l’alto numero di tedeschi che ogni anno si cancellano dai registri ecclesiastici per non pagare più la tassa sul culto; negli ultimi sette-otto anni la Chiesa cattolica ha perduto fra i 160 mila e i 210 mila battezzati all’anno. L’intercomunione per le coppie religiosamente miste, la benedizione delle coppie omosessuali e l’ammissione ai sacramenti per i divorziati risposati possono essere interpretate come altrettante trovate pubblicitarie per arrestare le defezioni di un gregge sempre più secolarizzato, per salvaguardare il giro d’affari dell’azienda.

Naturalmente i fautori dell’”apertura” reagiranno indignati a questo mio commento, replicheranno che non ho capito nulla del senso del nuovo paradigma circa i rapporti della Chiesa col mondo. Che non ho inteso come il non giudicare, il non mostrarsi oppositivi, il non proporre verità che l’interlocutore non può intendere a causa dei suoi condizionamenti culturali, l’accompagnamento e l’accoglienza senza entrare nel merito dell’errore altrui, la disponibilità a sorprendere il desiderio del vero bene anche nel più turpe dei desideri umani sono funzionali a facilitare l’incontro dei nostri fratelli uomini con la Verità, con Cristo. Ragionamento sconclusionato e incoerente, che molti come Peppino Zola potrebbero smentire alla luce della loro personale esperienza. Ma anche le Scritture lo smentiscono. Se il paradigma fosse giusto, i cristiani non avrebbero dovuto proclamare santo Giovanni il Battista, che ci rimise la testa per avere con troppa insistenza e foga messo Erode di fronte alla vergogna del suo peccato. Anziché mostrare pazienza, anziché accogliere e accompagnare, anziché cogliere il desiderio dell’Assoluto nel desiderio sessuale di Erode di possedere Erodiade, Giovanni fece mostra di un moralismo spietato apparentemente privo di misericordia. Eppure la Chiesa insiste a dire che agì rettamente.

Ha detto Giovanni Paolo II:

«Il precursore di Cristo scelse la via della coerenza, dando piena testimonianza all’Agnello di Dio, del quale aveva preparato la strada. E pagò con la morte questo suo amore per la verità, privo di ogni compromesso» (Angelus del 29 agosto 1999).

E Benedetto XVI:

«Da autentico profeta, Giovanni rese testimonianza alla verità senza compromessi. Denunciò le trasgressioni dei comandamenti di Dio, anche quando protagonisti ne erano i potenti. Così, quando accusò di adulterio Erode ed Erodiade, pagò con la vita, sigillando col martirio il suo servizio a Cristo, che è la Verità in persona» (Angelus del 24 giugno 2007).

Ma che all’annuncio della Verità senza paludamenti abbia diritto anche chi non la può subito capire, anche chi prevedibilmente reagirà male a tale annuncio, lo ha chiarito Colui di cui il Battista fu il precursore: Gesù. Un bel giorno (Lc 4, 16-30; Mt 13, 53-58; Mc 6, 1-6) entra nella sinagoga di Nazareth, la cittadina dove ha vissuto per 30 anni, si fa dare il rotolo del profeta Isaia e legge il passo dove viene annunciato l’avvento del Messia. Poi si siede e proclama che il Messia di cui Isaia parla è lui, il figlio di Maria e di Giuseppe. Le reazioni sono prevedibili: sconcerto, perplessità, indignazione. Anziché ammorbidire il colpo o cercare di spiegarsi, Gesù rincara la dose: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua», e cita i passi della Bibbia nei quali i profeti si dedicano agli stranieri anziché agli ebrei. A quel punto gli ascoltatori perdono la trebisonda: «All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù». Gesù era ben consapevole che i suoi parenti e compaesani non erano pronti per l’annuncio della sua missione profetica, sapeva che si sarebbero scandalizzati, eppure ha voluto scientemente provocarli. Per un motivo molto semplice: perché chi è stato chiamato, chi è stato eletto, ha anzitutto un impegno con la Verità, ha un obbligo nei suoi confronti. È assolvendo i nostri personali obblighi nei confronti della Verità che facciamo qualcosa di utile anche per gli altri, che contribuiamo alla possibilità che gli altri incontrino la Verità: non il contrario! Non è preoccupandoci di come gli altri possono incontrare la verità attraverso di noi che creiamo le condizioni per quell’incontro, anzi: lo rendiamo più difficile, perché gli altri incontreranno il nostro sforzo di fare bella figura, la nostra preoccupazione di apparire gradevoli e accoglienti, che faranno da schermo al disegno che la Verità ha su ogni uomo. Suscitare scandalo, iniziale rigetto, avversione, fa parte della modalità con cui la Verità si comunica agli uomini: pensate a san Paolo e alla sua conversione.

Chi si preoccupa troppo delle modalità con cui testimonia al mondo la Verità, mostra di avere poca fede nella capacità della Verità stessa di farsi conoscere e apprezzare dagli uomini. Considera più importante se stesso, la propria rispettabilità, la propria tranquillità psicologica, la propria accettabilità sociale del compito al quale è stato chiamato, degli obblighi che ha nei confronti della Verità. Così facendo fa un torto a Dio, al prossimo e a se stesso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *