13 maggio 2018
La mia recensione, pubblicata su Chiesa e Post Concilio, al libro di Corrado Gnerre – sposato e padre di cinque figli, filosofo e teologo, docente universitario, fondatore del sito web “Il Cammino dei Tre Sentieri”, autore di numerose pubblicazioni di carattere apologetico – “Ridateci Don Camillo!”, con sottotitolo: “Giovannino Guareschi, filosofo, teologo… e profeta”, pubblicato dalle edizioni Mipep-Docete.
Un libro “prezioso”, per molte ragioni. Prima fra tutte, perché contribuisce a far comprendere la grandezza dello scrittore e dell’uomo Giovannino Guareschi. Il compianto arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Carlo Caffarra, definì Guareschi «il più grande scrittore cattolico italiano del secolo scorso». Mai giudizio fu più appropriato. Non solo perché Guareschi è tra gli scrittori italiani più tradotti e apprezzati al mondo, non solo perché scrive riuscendo a parlare alla ragione, ma anche al “cuore” dei suoi lettori – cosa molto rara – ma perché l’intera sua produzione letteraria è permeata dall’unico criterio che un cattolico deve usare per rendere non vana la sua vita: la proclamazione della Verità, che è ancoraggio all’ordine naturale, e quindi divino, delle cose.
Diceva un grande santo, Giuseppe Moscati:
«Ama la verità; mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio». Pensieri che, a nostro avviso, si attagliano perfettamente alla figura di Guareschi, che come sostiene giustamente Gnerre «Non è stato solo un grande scrittore e umorista, ma anche un grande “filosofo” e perfino un grande “teologo” cattolico. Usiamo le virgolette per non far dispiacere a chi filosofo e teologo lo è per professione e per riconoscimenti accademici, solo per questo e forse anche perché lo stesso scrittore della Bassa non avrebbe mai amato farsi appellare in questo modo». Siamo d’accordo con Gnerre quando sostiene che Guareschi è stato certamente un filosofo, perché il suo – spiega lo scrittore beneventano – «Ѐ stato il pensiero del “senso comune”, cioè un pensiero autenticamente cattolico. Leggendo i suoi racconti, si pensa al mondo così com’è: piccolo-piccolo, ma grande, esuberantamente grande nel significato. (…). Di quale piccolezza si tratta? Di quella della semplicità. Che è però filosoficamente grande, grandissima, perché legata a quel “senso comune” che è a sua volta infallibile giudizio di ciò che accade. Si scrive “senso comune”, ma si legge “buon senso”: capacità di giudicare esattamente, in maniera umana ed equilibrata, senza lasciarsi ingabbiare da ideologie e astrazioni di sorta, senza pretendere di “chiudere” il reale in categorie intellettuali e soggettive».
Capacità di giudizio sulla realtà, quindi, esercitata col buon senso. Del “retto giudizio”, come ha insegnato Gesù, che diceva agli apostoli per la loro prima missione (Mt,10,1-23):
«Se qualcuno non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri calzari. In verità vi dico, nel giorno del giudizio, il paese di Sodoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città».
Quanti sono coloro che, pur consapevoli che Dio solo è giudizio, sono disposti a mettere in pratica il precetto di scuotere la polvere dai propri calzari? Il pensiero che si fa giudizio – e non condanna – sugli atti e sui comportamenti degli uomini, sugli eventi e le situazioni che la storia o la vita quotidiana ci propongono, semplicemente non deve esistere. A volte per pavidità, altre per rassegnazione, viene sostituito dal pensiero unico, morbido, accondiscendente, accomodante, annacquante. Inesistente, perché corrisponde al nulla. Nel nostro mondo si è insinuata una strisciante e pericolosissima inclinazione ad evitare l’espressione del giudizio, che corrisponde all’esigenza di non contrapporsi al mondo e ai suoi mali, ma di comprenderlo, di farselo amico e – spesso – di giustificarlo. L’espressione netta e chiara del giudizio significa comprendere e valutare, dove sta il bene e dove sta il male, dove la giustizia e l’ingiustizia, dove la Verità e la mistificazione o l’ipocrisia. Vuole dire, in una parola, testimoniare la Verità, quella che precede e tempera il diritto umano, fornendogli un punto di riferimento oggettivo, una cornice. Dice Gesù:
«Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio» (Gv. 7,24). E ancora: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lu 12,54-57). Ancora, San Paolo: «Non sapete voi che giudicheremo gli angeli? Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita!» (1 Corinzi).
Coloro che vogliono impedire il giudizio, vogliono fare a meno della morale. La disprezzano, la calpestano e incitano ad abrogarla, per crearne una addomesticata, buona per tutti gli usi, subordinata ai desideri individuali, che rispetti le buone maniere, eviti le polemiche, non disturbi il manovratore, non urti le altrui suscettibilità, ma sia incline a edulcorare la realtà o ad omettere di citare le responsabilità o di dare un nome e un cognome a persone che sono colluse con il male o che lo praticano loro stesse o che lo assecondano o a situazioni di palese torbidità. Pusillanimi! Il laissez-faire, nel campo della della Verità morale che proviene da Dio, diventa complicità. Sono tanti a praticare questa connivenza con il male. Presidiano i loro orticelli da coltivare e pensano di trovare spazio per farli crescere, solo attraverso la compromissione con il potere, con l’ambizione di divenire loro stessi potere. Rincorrono tattiche e strategie e le piccole miserie quotidiane che la vita ci propone. L’invidia, il rancore, l’egoismo, l’avidità. Coltivano terreni aridi, che non producono nulla, perché nulla in essi può germogliare. Generano solo la mala pianta della setta, che per sua natura odia la Libertà e la Verità. Servi, insieme disperati e onnipotenti delle loro ideologie, conducono un’aspra e feroce battaglia contro l’essere umano che non cerca queste appartenenze e che per evitare connivenze e complicità, si rifiuta di ricevere protezioni o di accondiscendere a progetti mondani. Tutti contrassegnati dall’ansia prodotta da Mammona, dalla bramosia del denaro e del potere da esercitare. Quale altra seduzione, del resto, ha più forza di quella che si produce se l’uomo può fare quel che vuole nei confronti di un suo simile?
Senza l’iscrizione alla lobby che conta, sta diventando sempre più difficile anche solo sopravvivere. In tutti i campi dell’agire umano. Come se le appartenenze di questa terra avessero una qualche importanza agli occhi di Dio. Sono cenere. Come ciascuno di noi è cenere. Non parliamo poi di quel che accade quando chi non si iscrive a nessuna setta, usa parole di Verità. Prima, viene ritenuto un pazzo, poi scatta l’esigenza dell’emarginazione e della gogna pubblica. La Verità si deve celare, occultare, a parere di questi lupi. Dice Gesù: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato. Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10, 16-23).
Torniamo a Guareschi, che pratica l’insegnamento di esercitare il giudizio in maniera sorprendente e certamente inusuale. Gnerre ricorda l’episodio del comunistissimo Peppone, che chiede il Battesimo per il figlio, volendogli imporre il nome di “Giuseppe, Stalin, Lenin”.
«Al rifiuto perentorio di Don Camillo (non lo dice chiaramente)», rileva Gnerre, «con la sua reazione scomposta quasi arriva a “catechizzare” il Curato di non poter rifiutare un Sacramento che è necessario per la salvezza. Per un comunista ortodosso, è quanto dire! Cederà poi sul nome, inserendo anche “Camillo”, ma non sulla richiesta del Sacramento. Qui c’è tutta la poesia del buon senso, l’affezione ad una tradizione dei padri che nemmeno una “fede” ideologica di quella portata può scalfire; insomma, c’è un cuore che è rimasto ancora semplice, anche se la mente è da tutt’altra parte». Aggiunge Gnerre: «Guareschi, presentando i suoi personaggi in questo modo, non solo riesce a demolire qualsiasi ideologia contro l’uomo, ma riguardo al comunismo, riesce ugualmente a dimostrarne l’intrinseca perversità; tanti intrinseca e tanto perversa che anche il comunista più ortodosso è costretto a comportarsi e a vivere in modo diametralmente diverso rispetto a quello che gli impone l’ideologia… a patto, però, che sia come Peppone, cioè che il suo “buon senso” stia ancora lì, a guidarlo».
A conclusione dell’introduzione al suo libro – che si legge tutto d’un fiato e che contiene vasti brani significativi delle opere di Guareschi – Gnerre scrive:
«C’è chi ha definito Guareschi una sorta di “eretico della risata”; e infatti lo è stato “eretico” di quello che oggi si suole definire “politicamente corretto”. Da una parte, ha fatto divertire non nascondendo le sue simpatie politiche e facendo capire da quale parte fosse la ragione (e non è poco se si pensa dove andasse la cultura in quegli anni); dall’altra, ha riproposto il “buon senso”, quel sano realismo, che in anni di trionfo filosofico di “situazionismo” (non esisterebbe una morale oggettiva, ma ogni azione dovrebbe essere giudicata situazione per situazione) e “nichilismo” (non esisterebbe alcun valore), costituiva davvero un’eresia».
Ecco, la grande, straordinaria attualità di Giovannino Guareschi e dei suoi impareggiabili personaggi. Merito di Corrado Gnerre averla riproposta. “Ridateci Don Camillo! Ѐ proprio il caso di dire.
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